- Ufficio Comunicazioni Sociali Accademia Bonifaciana
- 3 Dicembre 2025
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La “Lectio Magistralis” del Cardinale Gianfranco Card. Ghirlanda S.J., all’Accademia Bonifaciana di Anagni, in occasione dell’Inaugurazione dell’Anno Accademico 2025 – 2026, tenuta in una gremita Sala della Ragione del Comune di Anagni.
Già Rettore Magnifico della Pontificia Università Gregoriana e Patrono del Sovrano Militare ordine di Malta, declamata presso la Sala della Ragione del Comune di Anagni in occasione dell’Apertura dell’Anno Accademico dell’Accademia Bonifaciana e del conferimento alla Sua persona della XXIII edizione del Premio Internazionale Bonifacio VIII e del titolo di Senatore Accademico con la seguente motivazione: “Creato cardinale da Papa Francesco nel concistoro del 27 agosto 2022, con la diaconia del Santissimo Nome di Gesù. La motivazione di questo riconoscimento è legata ai suoi eccezionali contributi nel campo del diritto canonico e al suo servizio alla Chiesa cattolica. Ghirlanda è considerato un profondo esperto di diritto canonico e ha pubblicato oltre 110 articoli specializzati nel campo. Ha inoltre collaborato alla stesura di diverse costituzioni apostoliche, tra cui “Praedicate evangelium” sulla riforma della Curia romana.
Il suo ruolo di principale consigliere del Papa per la riforma della Curia e la sua nomina a patrono del Sovrano Militare Ordine di Malta nel giugno 2023 sono ulteriori riconoscimenti del suo impegno e della sua autorevolezza all’interno della Sede Apostolica, che ha servito come consultore di diverse Congregazioni e Consigli, tra cui la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica. Ha insegnato diritto canonico presso la Pontificia Università Gregoriana e ha ricoperto il ruolo di Rettore Magnifico della stessa università”.
1. Introduzione
Quando si parla di giustizia è da considerare se essa la si intenda solo da un punto di vista legale, cioè da ciò che la legge positiva permette o proibisce, quindi di quali diritti attribuisce e quali obblighi corrispondenti delinea e come li disciplina, oppure se la si intende in un senso sostanziale, cioè come quella dimensione che è alla base della legge positiva e allo stesso tempo la trascende. Tale distinzione è importante perché talvolta la legge positiva può essere strumento di potere quindi non rispettare la giustizia sostanziale, violando, la legge stessa, i diritti fondamentali della persona.
2. Fondamenti antropologici della giustizia e del diritto e loro relazione
2.1 Natura relazionale dell’uomo
Nella società il diritto si dà per l’esserci stesso delle relazioni tra i membri e le diverse funzioni, che la compongono. Sotto questo aspetto si tratta del diritto inteso nella sua globalità ed essenzialità, prima ancora delle specificazioni, derivazioni o applicazioni di ordine propriamente legislativo positivo. Nella sua essenza il diritto va definito come l’insieme delle relazioni tra i soggetti fornite di obbligatorietà e che creano regole di condotta.
Sotto un altro aspetto, il diritto, come diritto positivo, è dato dell’insieme delle leggi e delle norme positive stabilite dall’autorità legittima che regolano l’intersecarsi delle relazioni intersoggettive nella vita della comunità e che in questo modo costituiscono delle istituzioni, la cui totalità dà l’ordinamento giuridico.
Si constata fenomenologicamente che l’ uomo è per sua natura un ente relazionale. L’essere in relazione all’altro è costitutivo dello stesso ente uomo. Dal punto di vista filosofico la natura dell’uomo in riferimento al suo fine è la capacità in lui inscritta di entrare in relazione con l’altro.
Allora, il riconoscere se stessi come esistenti comporta di per sé il riconoscimento dell’altro come esistente, della sua parità ontologica, perciò dello stesso suo modo di agire e di esigere. Possiamo dire che “L’essere e il vivere con gli altri non è un semplice essere accanto, ma è un con-esserci e un con-vivere come dovuti”. L’unità e la distinzione sono insieme affermate quando sono rispettate le strutture naturali della convivenza, le quali a loro volta sono tutelate dalla legge positiva contro le forze di dissoluzione sociale che fanno sì che le distinzioni diventino divisioni, opposizione e sopraffazione del più forte rispetto al più debole.
A ogni essere umano, senza alcuna eccezione, spetta in modo assoluto un “diritto proprio”, uno “ius suum“, che si afferma nei confronti di ogni altro essere umano indistintamente e che quindi esige un rispetto, senza il quale il soggetto non potrebbe realizzarsi come persona. La relazione tra due o più soggetti è stabilita proprio nell’affermazione del loro esistere, con l’esigenza di realizzarsi nella relazione stessa. In questa dinamica della relazione con l’altro sono le radici del diritto, del “giuridico”, come ciò che è dovuto perché legittimamente affermato e preteso.
Il “giuridico” indica il rapporto di giustizia che in concreto deve stabilirsi tra i soggetti, che scaturisce dalla loro stessa relazione. Di qui la definizione di giustizia secondo Ulpiano (sec. II-III d.C.): “La giustizia è la costante e perpetua volontà di dare a ciascuno il suo” (“constans et perpetua voluntas ius suumcuiquetribuendi“).
La struttura fondamentale della convivenza umana, allora, non può che basarsi sul diritto fondamentale e indisponibile all’esistenza e sull’obbligo di rispettarla nei confronti di chiunque senza eccezioni dall’inizio fino alla sua conclusione naturale. Si tratta di un diritto/obbligo limite: andare al di là di esso significa distruggere la convivenza e quindi l’uomo stesso. Si pone qui, per es., la questione della legalizzazione dell’aborto e dell’eutanasia. Si tratta di situazioni che vengono presentare come rivendicazione di un diritto, quindi come cosa giusta. Ma infrangere la norma limite dell’indisponibilità della vita umana significa esporre ogni essere umano all’arbitrio di chi fa le leggi di determinare chi ha diritto alla vita e chi no. Ciò vale anche riguardo alla pena di morte. Su questo punto già si era espresso ben quattro volte Giovanni Paolo II nell’Es. ap. Evangelium vitae del 25 marzo 1995 (nn. 9; 27; 40; 55-56). Papa Francesco dopo essere ritornato più volte sull’argomento, con Rescritto ex audientia del 2 agosto 2018 ha disposto il cambio del n. 2267 del Catechismo della Chiesa Cattolica, dove adesso si afferma che “la Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che ‘la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona’, e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo”. Il che equivale a dire che la Chiesa, nella comprensione storica della legge naturale, è arrivata alla convinzione che la pena di morte va contro di essa. Allora, lì dove sono ammessi, se si pratica l’aborto, l’eutanasia e la pena di morte, non si viola la giustizia legale, ma si viola la giustizia sostanziale, cioè il diritto nella sua essenzialità, perché si viola il diritto di esistere.
Premesso questo, possiamo dire che il diritto come esperienza originale di ogni essere umano scaturisce proprio da “la relazione interpersonale nell’aspetto del dovuto-debitum“. Il diritto è costituito dai rapporti intersoggettivi determinati dalle attribuzioni di valori e beni, diritti soggettivi naturali, in quanto pertinenti all’uomo per il fatto di esistere, che richiedono rispetto e promozione da parte sia dei singoli soggetti sia della comunità, quindi anche dell’autorità pubblica. In questo modo il diritto, lo “ius“, come realtà ontologica, ha come contenuto il giusto, lo “iustum“, che, in quanto è tale per i soggetti implicati nel rapporto, assume il carattere di un comando, uno “iussum“. Tutto questo, nell’esperienza umana, viene oggettivato e storicizzato nella legge, nella lex, come realtà intenzionale, cioè in un concreto ordinamento giuridico, che esprime e delinea, ma non costituisce, perché priori, le legittime esigibilità reciproche dei soggetti agenti in una società. Così il diritto positivo, come insieme di leggi positive, nella sua funzione di riconoscere – non conferire -, tutelare e promuovere il diritto proprio, lo “ius suum“, di ogni soggetto agente in una società, è oggetto della giustizia, proprio perché lo “ius suum” è il contenuto della giustizia.
Tutto questo,dal punto di vista cristiano, trova la sua ragione nel fatto che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio, che è Uno e Trino. Poiché la relazione tra le tre persone divine è costitutiva dell’essenza di Dio come Uno, la ratio essendi dell’uomo, la sua ragion d’essere, è quella della relazione con l’altro, l’altro fa parte costitutiva della stessa soggettività dell’io. Dio creò l’uomo a sua immagine, maschio e femmina(Gn 1,27). La differenza e la reciprocità dei sessi fa sì che la comunione sia la dimensione fondamentale dell’uomo. L’uomo e la donna, come coppia, sono modello per tutti gli esseri umani perché chiamati, proprio nella diversità, alla comunione, a immagine e somiglianza della prima coppia. Ad immagine della prima coppia si ha un’unità strutturale di tutto il genere umano, e nello stesso tempo una distinzione tra le membra di esso.
Gesù ristabilisce l’ordine della creazione, cioè che l’uomo e la donna nella loro unione nel matrimonio sono segno della vita trinitaria, cioè di un’unita inscindibile pur nella differenza, e dell’unità, nella diversità, cui tutta l’umanità è ordinata e che le divisioni sono frutto del peccato(Mt 19,3-9).
Nell’essere, l’uomo, immagine somigliante di Dio, è posto il fondamento di tutto l’ethos umano, il cui apice è il precetto dell’amore, secondo il quale ogni uomo deve vivere per l’altro. È questa similitudine con Dio che fa sì che l’uomo sia sulla terra la sola creatura che Dio ha voluto per se stessa, e che può ritrovare ed attuare se stessa solo nel sincero dono di sé (GS 24c).
La relazione con Dio, poi, definisce la relazione dell’uomo con la realtà creata (Gn 1,28; 2,15) e quindi con i suoi simili (Gn 1, 26b.27; 2,18-23). Per questa ragione è la persona che fonda la vita sociale: l’uomo non è persona per il fatto che è sociale, bensì è sociale perché è persona. Dio, stabilendo la dignità dell’uomo, creandolo a sua immagine somigliante, determina anche le strutture della convivenza umana, che altrimenti risulterebbe impossibile. Qui si trova la radice di tutti i diritti fondamentali della persona umana e di tutti gli obblighi corrispondenti e della giuridicità dei rapporti intersoggettivi che si hanno nel convivere sociale.
Col peccato l’uomo distrugge le strutture della convivenza umana immanenti alla sua natura e diventa incapace di attuare il progetto di Dio (Gn 3,6-7.16-19; 11,1-9), ma in lui rimane la capacità di ricevere la sanazione da parte di Dio della sua natura e la restaurazione della comunione con Dio e con gli uomini. L’antica Alleanza e la Legge mosaica, la redenzione operata da Cristo, la nuova Alleanza e la Legge dello Spirito, si inseriscono in questa capacità dell’uomo.
Gesù, con l’atto redentivo della sua morte e risurrezione, restituisce all’uomo la sua immagine originaria, quindi la possibilità di ordinare la convivenza sulla base del dono di sé, del rispetto dei diritti di ciascuno, per costruire una società degna dell’uomo.
2.2 Diritto naturale e diritto positivo
Il problema antropologico soggiacente a tutto quanto fin qui esposto, dal punto di vista della riflessione cristiana, è quello del rapporto tra natura e grazia.
Quello che vado dicendo non dev’essere considerato come riguardante solo la persona che vive nella fede cristiana, perché il rapporto tra Dio e l’uomo sempre sussiste, anche quando concretamente l’uomo lo nega e lo rifiuta. La rivelazione giudeo-cristiana svela questa realtà più profonda dell’essere umano.
Natura è la realtà nella quale l’uomo si trova per il fatto stesso di venire all’esistenza. Essa porta in sé da una parte l’immagine di Dio, e quindi in potenza l’apertura a Dio e agli altri, ma dall’altra anche la concupiscenza che, come tendenza al peccato, è possibilità di non attuazione dell’immagine di Dio. Nonostante il peccato, rimane impressa l’immagine e la somiglianza di Dio nella potenzialità della sua realizzazione, che però può attuarsi solo per opera della grazia di Dio che suscita nell’uomo la sua risposta personale, o semplicemente etica o anche di fede, come nel cristiano. In tale risposta, sotto l’impulso della grazia, l’uomo instaura un rapporto, o solo di fatto o pienamente cosciente, di comunione con Dio e con i suoi simili, attua così le potenzialità proprie della sua natura e quindi nelle sue stesse scelte storiche si realizza sempre più come persona: la persona è così la particolarizzazione storica della natura.
Le radici del diritto, del “giuridico”, come ciò che è dovuto perché legittimamente affermato e preteso, l’abbiamo visto, sono nella dinamica della relazione. Il “giuridico”, infatti, indica il rapporto di giustizia che in concreto deve stabilirsi tra i soggetti in relazione, perché sia rispettato il loro esistere. Tale rapporto di giustizia scaturisce concretamente dalla relazione nella sua oggettività e non da una norma astratta. Abbiamo già detto che il diritto come esperienza originale di ogni essere umano è la relazione interpersonale vista sotto l’aspetto del dovuto, del debitum. Il massimo d’attuazione dell’associabilità da parte dell’uomo si ha nello stabilire un rapporto di comunione con Dio e con suoi simili: in questo l’uomo esprime se stesso come persona, attuando storicamente la sua natura.
Dobbiamo considerare che la natura umana, in quanto condizione creaturale dell’uomo, si pone come la possibilità della comunicazione, all’uomo, della vita divina. Proprio per questo l’essere umano deve avere una consistenza propria – sebbene da considerare sempre nell’ambito della comunicazione divina – altrimenti sarebbe impossibile la stessa comunicazione della vita divina. La natura, allora, è il presupposto estrinseco della grazia, che, in quanto comunicazione della vita divina all’uomo, è il presupposto intrinseco della natura: Dio non può chiamare chi non è Dio alla comunione con lui senza crearlo, ma lo crea per comunicargli la vita divina. Non è mai esistita una natura pura, indipendente dalla grazia: non si dà uomo che non sia chiamato a un’unica vocazione divina, che si dà in Cristo.
La natura umana è ciò che è aperto all’elevazione soprannaturale e che non può raggiungere alcuna pienezza e nessun fine ultimo senza tale elevazione. Il fatto che la natura si collochi in un ordine di grazia, non significa, come già detto, che non abbia una sua consistenza e un suo senso, per cui l’uomo, partendo della comprensione che ha di se stesso e del mondo che lo circonda, può scoprire una legge della natura che si articola, in virtù del suo essere sociale, in uno diritto naturale (“ius naturale”).
La legge naturale, scritta nel cuore dell’uomo (Rm 2,15), e il diritto naturale, che è parte di essa, sono contenuti nella natura relazionale dell’uomo, perché scaturenti dalle concrete relazioni stesse da lui stabilite. Anche se, secondo San Tommaso, dall’uomo la legge naturale e il diritto naturale possono essere conosciuti con la ragione, senza la grazia non possono essere seguiti: la legge naturale può essere conosciuta attraverso la retta ragione(“recta ratio”), dell’uomo, in quanto partecipazione alla ragione eterna di Dio. Dio immette nell’uomo un alito di vita, per cui diventa un essere vivente (Gn2,7): per questo secondo S. Paolo è partecipe della natura divina (At 17, 25.28). Da qui scaturisce la ragionevolezza del diritto naturale, da cui deriva la ragionevolezza delle leggi che nel loro complesso costituiscono il diritto positivo. Il diritto naturale non è estrinseco all’uomo e neppure la legge positiva, perché essa, secondo la definizione di S. Tommaso è “un ordinamento della ragione promulgato per il bene comune da chi ha la cura della comunità” (“quae dam rationis ordinatio ad bonum commune ab eo qui curam cum munitatis habet promulgata”). La legge positiva è però un “ordinamento della ragione” solo in quanto corrisponde alla legge naturale, che è compresa dalla retta ragione dell’uomo, la quale è partecipazione alla ragione eterna di Dio, per il fatto stesso che l’uomo è creato ad immagine somigliante di Dio. È in virtù di questo che la legge positiva può essere giusta, se fornita di ragionevolezza.
Allora, una legge positiva umana obbliga non solo sul piano giuridico, ma anche morale, quando è giusta, cioè quando è secondo la regola della ragione. È secondo la regola della ragione, quando è secondo la ragion d’essere delle cose, cioè secondo il fine per cui esistono (per es., un embrione non esiste per essere conservato in una macchina), ed è secondo la ragion d’essere del costituirsi delle relazioni tra gli esseri umani, cioè secondo il fine per cui si stabiliscono. In questo modo la legge positiva è secondo la legge naturale, quindi giusta. Quando una legge positiva è contraria alla legge naturale non obbliga moralmente, anzi dev’essere disattesa, perché è ingiusta, mancante di ragionevolezza.
Comunque, quando la legge positiva è giusta assicura solo il minimo etico e muta con la storicità dell’uomo e della sua comprensione della legge naturale. Quindi possiamo dire che la legge positiva umana è un’interpretazione culturale e storica della legge naturale, sulla base della retta ragione (“recta ratio”),che, conoscendo la legge naturale, cioè la ragion d’essere intrinseca alle cose, la formula in norme positive. Allora, la storicità del diritto positivo riflette la storicità dello sforzo morale dell’uomo di autocomprendersi, per quello che riguarda la sfera della sua vita sociale, sotto l’influsso di quel lume divino che è in lui impresso.
La legge naturale e il diritto naturale, in quanto inscritti nella natura, trascendono la storia, ma nello stesso tempo, come appena detto, sono storicamente conosciuti ed attuati dall’uomo. L’atto personale di risposta dell’uomo, che sia nella fede o no, ma sempre comunque sotto l’impulso della grazia, conduce alla decisione che, seguendo la legge naturale e il diritto naturale in un dato comportamento, compie la natura. Ma questo lo potrà fare se nella sua vita segue la sua retta ragione che gli fa scoprire la ragion d’essere delle cose ed agire rispettandola.
L’atto personale dell’uomo, sia che questi viva nella fede oppure no, come dice S. Paolo, sarà giusto oppure no, se segue la legge che è iscritta nel suo cuore oppure no (Rm 2,14-16). Per questo ognuno, che viva la fede o no, alla fine verrà giudicato in base alla sua coscienza.
La legge naturale e il diritto naturale esprimono, come realtà ontologiche, la dignità della persona umana nel determinarne i doveri e i diritti naturali. Sulla base dell’auto comprensione che l’uomo ha, il diritto naturale viene storicizzato nel diritto positivo di una qualsiasi società, il quale così esprime di fatto la giustizia di Dio, che s’identifica con la sua volontà che l’uomo realizzi la sua immagine e in questo modo si attui sempre più come persona, nella massima effettuazione possibile della sua associabilità. Riguardando l’uomo come tale,quanto detto vale per qualsiasi ordinamento giuridico.
Il diritto, o il “giuridico”, non coincide con il legale. La norma scritta presuppone un contesto valoriale, cioè quei principi guida ai quali una società è ancorata. Nella società civile, detto ruolo guida è costituito dalla Costituzione, che esprime i valori fondanti e i criteri di riferimento imprescindibili per le leggi che ordinano la società. Possiamo dire che le norme costituzionali sono l’anima dell’ordinamento, mentre le leggi ne costituiscono piuttosto il corpo. Ciò è vero perché la legittimità delle leggi è data dalla Costituzione, come sovraordinata ad esse, ma ciò è insufficiente, perché una Costituzione costituisce un diritto positivo, risultato spesso, almeno nei sistemi democratici, di un compromesso tra partiti politici, quindi spesso frutto di calcoli di opportunità politica, per cui non possiamo dire in assoluto che la Costituzioni traducono in norme vincolanti un comune sentire pregiuridico di natura morale. Una Costituzione, per es.,potrebbe stabilire, per compromesso politico, che il matrimonio non è fondato sull’unione tra persone di diverso sesso. In un sistema totalitario e dittatoriale l’ordinamento giuridico anziché essere volto alla protezione dei diritti delle persone è strumento di oppressione e di privazione delle libertà fondamentali. L’anima di ogni ordinamento non può che essere costituita dai principi di diritto naturale, che scaturiscono dalla stessa natura delle relazioni tra gli agenti in una società e che ogni uomo anche non credente può conoscere, se si pone nella disposizione di usare la sua razionalità, nella ricerca della giustizia sostanziale e non solo legale.
3. Conclusione
Siamo partiti dalla considerazione della distinzione tra il diritto nella sua globalità ed essenzialità e il diritto positivo, come l’insieme di leggi che l’uomo si dà.
Il riferimento all’essenza del diritto conduce ad una verità oggettiva secondo la quale debbono attuarsi i rapporti tra i membri di una società, quindi ad una giustizia oggettiva che deve trovare espressione nelle leggi positive nel momento sia della loro formulazione sia della loro applicazione nella cura ordinaria della vita della società sia nei giudizi che vengono pronunciati nei tribunali.
Tale giustizia oggettiva è la giustizia divina che, appunto, deve trovare espressione nella giustizia umana attraverso le leggi e i giudizi.
S. Tommaso afferma che la giustizia è talvolta chiamata verità (“Quando que iustitia veritas vocatur”), quindi la giustizia umana deve riflettere la verità, proprio perché la giustizia esige di essere attuata secondo la retta ragione, cioè secondo verità. Compito di ogni ordinamento giuridico, infatti, è il servizio della verità, come unico fondamento valido su cui può reggersi la vita personale e sociale. È, quindi, necessario che le leggi umane rispecchino la verità delle relazioni. Ovviamente, ciò vale anche riguardo alla loro concreta applicazione. S. Tommaso basa la sua concezione giuridica sull’oggettivo ordinamento delle cose e non semplicemente sulla volontà del legislatore.
Allora, dato che il diritto è una scienza pratica, quando si mette la giustizia in rapporto alla verità, quest’ultima non è intesa come una proposizione che in astratto dice ciò che deve essere, ma come concreta esigenza che i soggetti in relazione devono riconoscere e alla quale devono aderire proprio perché è riconosciuta come verità nella sua oggettività. È la stessa esigenza di verità che si traduce in giustizia. Alla verità si deve aderire. Preoccupazione del legislatore e di coloro che applicano la legge sarà, rispettivamente, di creare ed applicare norme basate sulla verità di ciò che è doveroso nelle relazioni sociali e personali. L’autorità legittima dovrà poi impegnarsi e promuovere la retta formazione della coscienza personale, perché, se ben formata, la coscienza aderisce naturalmente alla verità ed avverte in se stessa un principio di obbedienza che la spinge ad adeguarsi alla direttiva della legge.
Questo ci dice che il diritto naturale non consiste in un insieme di concetti astratti, ma è dato dalla concreta esigenza di giustizia intrinseca alla verità che costituisce le relazioni stesse. Non è un concetto astratto che la vita di ogni essere umano dev’essere rispettata e tutelata dal suo nascere fino alla sua fine naturale, ma scaturisce dalla relazione stessa che con qualsiasi essere umano dev’essere stabilita, altrimenti la convivenza diventa impossibile e la vita umana sta sottomessa all’arbitrio umano.
Evidentemente tutto questo ha le sue conseguenze nell’ambito dell’interpretazione e applicazione della legge. L’applicazione del metodo giuridico, che usa i mezzi interpretativi offerti nell’ambito sia ecclesiastico che statale, fa emergere la verità giuridica, che è lo iustum, il giusto nel caso concreto, dal significato proprio della legge, nell’orizzonte dellaverità data dal diritto naturale riguardante la realtà, che dev’essere regolata. In questo modo nel momento applicativo della legge positiva si rende presente lo ius, la giustizia, cioè la volontà di Dio in concreto, il diritto naturale.







