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Lectio Magistralis del Cardinal Luis Antonio Gokim Tagle, pro-prefetto della sezione per la prima evangelizzazione e le nuove Chiese particolari del Dicastero per l’evangelizzazione. in occasione del conferimento del Premio Internazionale Bonifacio VIII e del ventennale di fondazione dell’Accademia Bonifaciana

Con molta gratitudine e anche sorpresa accetto il premio Internazionale Bonifacio VIII “per una cultura della Pace” per l’anno duemila ventitré in nome delle tante persone che contribuiscono a formare una cultura della pace. Porgo un caloroso saluto ai dirigenti e ai collaboratori dell’Accademia Bonifaciana, al Presidente del comitato scientifico, Sua Eccellenza Mons. Enrico dal Covolo, al Presidente Onorario e Patrono Spirituale Sua Eminenza Cardinale José Saraiva Martins, al Rettore Presidente dell’Accademia, Professore Sante De Angelis, al Sindaco della Città di Anagni, Avvocato Daniele Natalia e a tutti voi che aspirate e lavorate per la pace.

Il mio intervento sarà breve. Tra i tanti modi possibili di affrontare la questione della pace, ne ho scelto uno che è presente nella Bibbia ma che, a mio avviso, non ha ricevuto l’attenzione che merita. Mi affascina l’apparizione di Cristo risorto ai suoi discepoli quando, mostrando loro le ferite sulla mano e sul costato, dice “La pace sia con voi”. Cosa ci sta insegnando Gesù sul rapporto tra le ferite e la pace e sulla costruzione della pace?

In Evangelii gaudium papa Francesco afferma: «A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri» (n. 270).

Ed eccoci a una missione: come si sanano le ferite del mondo. Sono numerose, oggi, le ferite del mondo. Infedeltà e relazioni fallite in ambito familiare, mancanza di cibo e di nutrimento in senso lato, bambini feriti nel corpo e nella mente, le culture indigene e le loro tradizioni ferite da altre culture che pretendono di essere superiori, l’individualismo che con la sua insistenza unilaterale sui diritti del singolo spesso ferisce la capacità di occuparsi degli altri. Vi sono poi forme di individualismo a livello sociale più ampio come l’etnocentrismo, la xenofobia, il nazionalismo, l’intolleranza religiosa. L’individualismo stigmatizza gli stranieri, le minoranze, i migranti e i poveri; li discrimina, mette loro contro la società, ne fa il capro espiatorio. Pur avendo fornito un contributo positivo alla società, anche i mezzi di comunicazione sociale e la tecnologia si sono trasformati in strumenti di violenza, di corruzione, di sfruttamento dei bambini e delle donne attraverso il sesso virtuale. Non possiamo ignorare le ferite inferte dalla pandemia e dalle guerre e dai conflitti armati che si verificano in molte parti del mondo, ferite che diventano pregiudizi e persino odio tra i popoli e che si trasmettono di generazione in generazione. La terra, la nostra casa comune, che porta le ferite dell’umanità, geme e piange con noi. Le ferite sono davvero tante. Queste ferite sono segni della violenza dell’ingiustizia, dell’avidità, dell’individualismo e dell’indifferenza. Come curarle? In molti ambienti della società già ce se ne occupa.

Ma rivolgiamo ora l’attenzione alla tradizione biblica – all’apparizione del Signore risorto ai discepoli, nel Vangelo di Giovanni, capitolo 20. Egli apparve loro e disse: “Pace a voi!” Detto questo mostrò le piaghe delle mani e del costato. Tommaso non si trova con gli altri discepoli. Quindi, nel momento in cui gli dicono «abbiamo visto il Signore», lui non ci crede. Ma il Signore torna di nuovo e questa volta Tommaso è con loro. Il Risorto gli dice: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio costato; e non essere incredulo, ma credente!». Gli risponde Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù risorto mostra le piaghe ai suoi discepoli invitandoli a guardarle e addirittura con Tommaso insiste perché le tocchi e metta la mano nel suo costato. Ma tutto questo è avvolto dal saluto della pace. Cercate di immaginare bene. Se foste voi Tommaso, come vi sareste sentiti? Quando vede e tocca le piaghe del Signore, Tommaso compie allora la suprema professione di fede: «Mio Signore e mio Dio».

Vedere e toccare le ferite è fondamentale per professare la fede che da pace. La risurrezione non comporta l’eliminazione o la svalutazione della croce. E qui cito il teologo ceco Tomáš Halík[1] , insignito del prestigioso Templeton Prize: «Le ferite rimangono ferite. Il nostro mondo è pieno di ferite. Sono convinto che coloro i quali chiudono gli occhi sulle ferite del nostro mondo non hanno il diritto di dire: “Mio Signore e mio Dio!”». Parole dure, no? Per mons. Halìk toccare le ferite di Cristo nelle ferite dell’umanità è condizione di fede autentica. La fede nasce e rinasce di continuo solo dalle ferite del Crocifisso e del Risorto, che vediamo e tocchiamo nelle ferite dell’umanità e del creato. Solo una fede ferita è credibile. Solo una fede ferita comprende la pace di Cristo.

Ora, con il mostrare le ferite ai discepoli, Gesù vuole mantenere viva in loro la sua memoria. Le sue ferite sono la conseguenza della sua relazione piena di amore e ricca di compassione con i poveri, gli ammalati, i pubblicani, le prostitute, i lebbrosi, i bambini, gli emarginati, gli stranieri, anche i suoi discepoli. Gesù è stato crocifisso per aver amato quelle persone concrete, ferite dalla società e dalla religione. Avendo condiviso le loro debolezze e le loro ferite, è stato reso perfetto in quanto fratello comprensivo, non in quanto giudice rigido.

 

[1] Nato a Praga nel 1948, dopo gli studi in filosofia, sociologia e psicologia, viene espulso dall’università e perseguitato come nemico del regime comunista. Ordinato sacerdote clandestinamente, ha collaborato in seguito con il presidente Václav Havel. Tra i suoi libri si ricordano Voglio che tu sia (2017) e Pazienza con Dio (2020), entrambi per Vita e pensiero (NdT).

Ecco come Gesù presenta il Regno di amore, misericordia e pace. Ma non guarisce solo i sintomi delle nostre ferite. Non ci salva dalla nostra vulnerabilità e ferite. Ci salva nelle nostre ferite e vulnerabilità. Vi è entrato dentro. È diventato come noi, eccetto il peccato. Con la sua incarnazione ha abbracciato un mondo ferito. Ha sperimentato cosa voglia dire essere nel mirino di un politico ambizioso.

È vissuto come rifugiato in Egitto. Ha fatto, da adolescente, l’esperienza di perdersi. Ha saputo cosa vuol dire esser preso per matto. Ha fatto l’esperienza di non avere una casa. E di essere oggetto di scherno, di ridicolo, persino da parte dei leader religiosi. Ha conosciuto il tradimento di un amico. Ha patito l’umiliante morte sulla croce, riservata ai criminali. Ed è stato tumulato in una tomba presa in prestito. Gesù guarisce con il suo essere ferito. Ecco la via della pace: compassione per i feriti, solidarietà con i feriti, portare le ferite degli altri.

C’è poi un altro aspetto da sottolineare in questo recupero della memoria dei discepoli innescato dalle ferite di Gesù. Esse ricordano ai discepoli anche il loro tradimento quando, impauriti, abbandonarono Gesù e cercarono di salvare sé stessi. Le ferite ricordano loro la cecità dell’ambizione politica e del legalismo religioso, che condannarono un innocente a morire come un criminale. Le ferite di Gesù invitano a smettere di infliggere ferite soprattutto ai poveri e ai deboli. Le ferite ci chiamano a convertirci alle vie della pace.

Se vogliamo essere operatori di guarigione e di pace, dobbiamo essere consapevoli che il mondo contemporaneo tendenzialmente rifiuta di guardare e di toccare le ferite di Gesù nelle ferite delle persone. Ne abbiamo paura perché ci spaventa il guardare in faccia la nostra mortalità, la nostra debolezza, la nostra realtà di peccatori, la nostra vulnerabilità. Lo psicologo e antropologo Ernest Becker[2] osserva che noi evitiamo il dolore e la sofferenza perché vogliamo dimenticare che siamo vulnerabili. Il teologo Roberto Goizueta[3] sostiene che «negare la morte è uccidere. Ma uccidiamo anche noi stessi. La paura del dolore e della fragilità ci spinge a rifuggire dalle autentiche relazioni umane e ad evitare quel vero amore che comporta sempre di aprirsi e rendersi vulnerabili di fronte all’altro. In definitiva, questa paura del dolore uccide la nostra vita interiore, la nostra capacità di provare tanto il dolore quanto la gioia e l’amore». Il timore delle ferite ci isola e rende indifferenti alle necessità altrui. Il timore spinge le persone alla violenza e a tenere un comportamento irrazionale. Il timore spinge a cercare di difendersi anche quando non c’è una minaccia reale. Quanti disseminano il timore negli altri e nella società hanno paura, in realtà, di sé stessi.

Nell’ottobre del 2015 ho visitato il campo profughi di Idomeni, in Grecia, vicino alla frontiera con l’ex repubblica jugoslava della Macedonia. Erano arrivate fin là migliaia di persone affamate, stanche e disperate, in fuga dalla Siria, dall’Iraq e dall’Afghanistan in guerra. Avevano potuto portare con sé solo qualche indumento e il tesoro più prezioso: la propria famiglia. Là si potevano vedere le ferite, se ne poteva sentire l’odore, si poteva toccarle. In quel luogo c’era grande angoscia, ma anche tanto coraggio, molta dignità, e un forte, coraggioso impegno a tener viva la speranza e costruire la pace. La persona responsabile della distribuzione del cibo, dei medicinali e dei  vestiti era una donna efficientissima. Durante la pausa dal lavoro ho conversato con lei e ho appreso che era un funzionario,  membro del governo della città. Ho chiesto se la sua responsabilità nel campo profughi fosse uno dei suoi doveri ufficiali, lei mi ha risposto di no, poi ha aggiunto: “ Questo per me è volontariato”. Ho detto scherzosamente: “Non hai abbastanza lavoro da fare in ufficio?” Ha detto: “Anche i miei antenati erano rifugiati, ho il DNA di rifugiato. Questi rifugiati sono i miei fratelli e le mie sorelle”. Sono sicuro che questa donna, condividendo le ferite dei suoi fratelli e sorelle, ha portato loro molta pace.

Una signora che lavora per la Caritas in Libano, impegnata con i migranti detenuti illegalmente, mi ha raccontato un’esperienza di quando andò in Siria per una conferenza. Prende un taxi. Arrivata a destinazione chiede il prezzo della corsa. Il tassista le risponde che non deve pagare. Lei insiste dicendo che ha i soldi. L’autista replica: «Io non prendo soldi dalla Caritas». Sorpresa, la signora le chiede come abbia fatto a capire che lei è della Caritas. Lui spiega: «Tre anni fa fui messo in prigione in Libano, perché immigrato illegale. Là ti ho visto. Una sera stavo male, ma le guardie si rifiutavano di darmi le medicine. In quel momento sei passata tu. Ti ho chiesto una medicina e me l’hai data. Quella notte ho potuto dormire bene. Non ti ho mai dimenticata». Per tre anni il volto di quella donna della Caritas era rimasto impresso nella memoria di un tassista. Lei è stata un dono di pace che è rimasto nel suo cuore.

Che possiamo vedere con occhi di compassione le ferite di Gesù nell’umanità ferita e nella creazione. Che possiamo sentire da quelle ferite aperte un saluto che diventa una chiamata: “Pace a voi!

 

[2] Statunitense, Nato nel 1924, morto nel 1976, vincitore del Premio Pulitzer nel 1974, ha scritto Il rifiuto della morte, San Paolo, Milano 1982 (NdT).

[3] Già presidente della Catholic Theological Society of America, detentore della Margaret O’Brien Flatley Chair in teologia cattolica al Boston College, ha scritto vari testi tra i quali Christ Our Companion. Toward a Theological Aesthetics of Liberation, Orbis Book, New York 2009 (NdT).