- Ufficio Comunicazioni Sociali Accademia Bonifaciana
- 13 Dicembre 2024
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Il suo secolo di vita, al servizio di quattro Papi. Monsignor Sergio Maurizio Soldini, lo propose al Comitato Scientifico e al Rettore Presidente per il massimo riconoscimento “bonifaciano” nella sua VII edizione. Nell’intervista il Presule ricorda la sua lunga e proficua attività pastorale, in cui ebbe massimo risalto, quando ricoprì la carica di Ordinario Militare per l’Italia.
Nel 2009 ricevette in Anagni, presso la Sala della Ragione del Comune, la VII edizione del Premio Internazionale Bonifacio VIII “per una cultura della Pace”, conferitogli dall’Accademia Bonifaciana di Anagni, su proposta del Rettore Presidente professor Sante De Angelis, del presidente del Comitato Scientifico di allora, il mai dimenticato Cardinale Elio Sgreccia e di monsignor Sergio Maurizio Soldini, che con lui aveva collaborato prima ad Albano e poi a Siena.
I suoi cento anni di vita coprono il pontificato di otto Papi. Ne ha conosciuti sette e collaborato con quattro. Per alcuni, Gaetano Bonicelli è un vescovo da record, per altri, semplicemente “don Tano”.
Nato nel giorno di santa Lucia del 1924 a Vilminore di Scalve, ai piedi delle alpi Orobie bergamasche, oggi 13 dicembre è stato il protagonista di una festa che è iniziata con l’Eucaristia nella parrocchia di Bonate Sopra, presieduta dal cardinale Mario Grech, Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi. Assieme a lui, 24 tra cardinali e vescovi, circa 80 sacerdoti e 300 persone provenienti da ogni parte d’Italia, che hanno soffiato insieme a monsignor Bonicelli le cento candeline durante il pranzo organizzato nel vicino oratorio.
A parte l’udito un po’ rallentato e le gambe “sifuline”, come dice lui stesso sorridendo, Bonicelli sprigiona forza e vitalità, ed è una miniera di ricordi e aneddoti.
Un secolo di vita. Come si sente alla vigilia di questo traguardo?
Compiere cento anni mi lascia quasi indifferente. Non l’ho desiderato io, l’ha voluto il Signore. Gli sono solo grato per essermi sempre stato accanto in questa vita un po’ selvaggia.
Selvaggia?
Sì, perché ho fatto di tutto. Sono stato seminarista negli anni difficili della guerra. Giovane prete tra i ragazzi dell’oratorio di Almenno San Salvatore. Di nuovo studente di Scienze politiche e sociali all’Università Cattolica e alla Sorbona di Parigi, dove mi mandò padre Gemelli in persona. Ho servito la Chiesa italiana nelle Acli e all’Ucei (ora Fondazione Migrantes), e la Conferenza episcopale come segretario aggiunto. Ero direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali quando nel 1975, arrivò la nomina episcopale.
È stato eletto vescovo da un santo, Paolo VI, e ha esercitato il suo ministero con un beato papa Luciani e poi con un altro santo, Giovanni Paolo II. Che rapporto ha avuto con i Papi?
Più limpido e genuino rispetto a tanti altri. Credo di aver servito la Chiesa universale anche attraverso l’ubbidienza diretta ai successori di Pietro. Paolo VI mi assegnò la diocesi suburbicaria di Albano come vescovo ausiliare prima e poi come ordinario. Nel suo territorio si trova Castel Gandolfo, e Giovanni Paolo II venne nella residenza estiva tre giorni dopo l’elezione. “Posso darti del tu?” mi chiese. La vicinanza e l’intimità con lui sono un tesoro preziosissimo. Purtroppo con il dolce Giovanni Paolo I, non ci fu il tempo neanche di una visita alla residenza estiva, perché morì dopo poco più di un mese di pontificato.
Nel 1981, papa Wojtyla la volle Ordinario Militare per l’Italia.
Fu lui stesso a comunicarmelo, una sera dopo cena. Iniziai così il mio servizio ecclesiale alle Forze Armate, girando mezzo mondo, con visite sistematiche ai militari italiani nei paesi Nato, in Medio Oriente, in Libano. Gli stessi luoghi che ancora oggi sono teatro di tante sofferenze.
Otto anni come vescovo castrense. È davvero importante la presenza della Chiesa nel mondo militare?
Ne sono convinto. É un settore in cui la Chiesa può e deve esserci, e non certo per l’amore del grado. La cura pastorale deve raggiungere tutti, e anche nel mondo militare si può diventare santi. Basti guardare a papa Giovanni XIII, patrono dell’Esercito, che fu da giovane sacerdote, cappellano militare o al corpo degli Alpini, a me carissimo: sono ben quattro i beati con la penna nera. Due cappellani, don Secondo Pollo e don Carlo Gnocchi, e due ufficiali, Teresio Olivelli e Luigi Bordino. Il ministero dei cappellani militari non si ferma solo a chi indossa la divisa, ma raggiunge anche le loro famiglie. Quante mamme sono sollevate a sapere che accanto ai loro figli e figlie c’è un prete!
All’età della pensione da Ordinario Militare è seguita quella da Arcivescovo di Siena.
Proprio così. I generali di corpo d’armata, cui l’Ordinario è parificato, scadono al compimento dei 65 anni di età. Nel 1989 lasciai l’incarico. Dopo l’esperienza di una diocesi che è una circoscrizione personale, senza un territorio preciso, il papa me ne affidò una che è geograficamente ben definita: la Chiesa di Siena-Colle di Val d’Elsa-Montalcino.
Com’è stato il ritorno a un ministero pastorale più diretto?
Molto positivo, nonostante inizialmente i rapporti tra Chiesa e politica locale fossero un po’ tesi. Ho compiuto due visite pastorali all’arcidiocesi, incontrando il popolo di Dio nella realtà in cui vive. Ho avuto anche l’occasione di organizzare eventi unici, che hanno vivacizzato la fede dei senesi, come il Congresso eucaristico nazionale nel 1994.
Arrivano i 75 anni, l’età in cui i vescovi diocesani presentano la rinuncia al Papa.
La trasmisi a Giovanni Paolo II nel 1999. Le rifiutò, dicendo al cardinale Re, che allora era in Segreteria di stato: “Bonicelli? Sta meglio di me. Che rimanga lì!”. E rimasi ancora due anni. Poi nel 2001 ho fatto ritorno nella mia diocesi di Bergamo. Da allora vivo accanto al Santuario di Stezzano, dove faccio ancora quello che posso per dare il mio contributo alla vita della Chiesa.
Nel 2009, l’Accademia Bonifaciana, le conferì il Premio Internazionale Bonifacio VIII, nella sua VII edizione. Come ricorda quel momento?
Grazie per questa domanda. Ricordo con profonda emozione e con profonda gratitudine quella giornata passata ad Anagni, ospite della ormai prestigiosa Accademia Bonifaciana, a cui rivolgo ancora il mio più sincero apprezzamento per avermi conferito il Premio Bonifacio VIII, che conservo gelosamente tra le cose più care, riconoscimento che ha rappresentato e rappresenta per me un onore immenso e una conferma del valore del lavoro pastorale svolto nella mia missione di sacerdote e di vescovo. Ma soprattutto perché il primo a riceverlo nel 2003, fu il “mio” papa per eccellenza, Giovanni Paolo II, che da vescovo di Albano, mi volle prima Ordinario Militare per l’Italia e poi Arcivescovo Metropolita di Siena.
La cerimonia di premiazione tenutasi nella bellissima Sala della Ragione del Comune di Anagni, fu un momento di grande emozione e orgoglio, non solo per me ma anche per tutti coloro che condivisero con me questo percorso, sostenendomi e incoraggiandomi lungo il cammino. Tra questi, non posso non menzionare il mio carissimo Monsignor Sergio Maurizio Soldini, che mi propose al Rettore Presidente dell’Accademia Cavalier Sante De Angelis e al Presidente del Comitato Scientifico dell’epoca il Cardinale Elio Sgreccia, di felice memoria. Ricevere il “Bonifacio VIII”, insieme ad altri confratelli nell’Episcopato e a Istituzioni di ogni ordine e grado, fu ed è per me un riconoscimento che trascende il personale arricchimento, segnando un importante traguardo nella mia missione pastorale e percorso personale. Anche se sono passati diversi anni, desidero anche ora, estendere i miei ringraziamenti a tutti i membri della giuria e allo staff organizzativo per il loro impegno nell’assegnazione di un premio così significativo dedicato alla “cultura della pace e all’educazione alla pace” per il progresso degli individui e delle comunità, sostenendo che non ci può essere progresso senza pace. La pace è possibile d’altronde solo se c’è libertà, e da quest’ultima sorge la responsabilità dell’inclusione e della consapevolezza. Una catena inscindibile se si vuole garantire il diritto alla pace al maggior numero possibile di individui. Fu evidente – quindi – lo sforzo del Comitato Scientifico, come disse Sgreccia nel suo saluto, nel promuovere l’eccellenza, l’innovazione e il talento, valori che in quell’anno, ho avuto l’onore di rappresentare attraverso il riconoscimento ricevuto.
Guardando a questi cento anni, qual è il ricordo più vivo?
Le persone. Degli incarichi mi importa poco. Ho sempre cercato l’umanità in tutti. La stessa che vedevo nella mia mamma, quando da bambino mi affidava alla Madonna del Rosario. La stessa umanità che osservavo nel curato di Vilminore, don Virginio Daina. É grazie al suo esempio, semplice e autentico, che ho scelto di essere prete.
Da quando è diventato sacerdote, 77 anni fa, la Chiesa ha cambiato volto: in peggio o in meglio?
A prima vista si direbbe in peggio: fedeli in calo e vocazioni che scarseggiano. Ma in questi giorni ho fatto delle riflessioni: vedo più gente pronta ad aiutare gli altri. Vuol già dire essere cristiani.
Un pensiero che riassuma la sua vita?
Il motto episcopale che mi accompagna da quasi cinquant’anni: “Omnibus omnia factus”. Sono le parole di Paolo ai Corinzi: “mi sono fatto tutto a tutti”. É quello che cerco di fare da cent’anni.
A cura dell’Ufficio Comunicazioni Sociali dell’Accademia Bonifaciana