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L’intervento integrale del Senatore Enrico BORGHI, membro del Comitato Parlamentare della Sicurezza della Repubblica, all’Accademia Bonifaciana in occasione del conferimento del Premio Internazionale Bonifacio VIII

Desidero anzitutto esprimere un sincero ed emozionato ringraziamento all’Accademia Bonifaciana di Anagni per la sua decisione di conferirmi, in questo contesto storico, culturale e architettonico così importante e significativo, il prestigioso riconoscimento dedicato a “Bonifacio VIII Città di Anagni – per una cultura della pace”.

Un ringraziamento in particolare al Presidente del Comitato Scientifico Sua Eccellenza monsignor Enrico dal Covolo, al Rettore Presidente Gr. Uff. professor Sante De Angelis, al Presidente della Giuria monsignor Josè Manuel del Rio Carraso e al Presidente Onorario e Patrono Spirituale Sua Eminenza il cardinale Josè Saraiva Martins, nonché a sua Eminenza il cardinale Luis Antonio Gokim Tagle che presiede la cerimonia di consegna odierna.

Un riconoscimento attorno al concetto di pace, in tempi odierni nei quali viviamo una situazione di profonda tensione bellica a più livelli, è al tempo stesso un momento di responsabilità e di spiazzamento.

Di responsabilità, perché discutiamo attorno alla pace proprio nelle ore in cui nel cuore dell’Europa (sulle sponde del Dnipro piuttosto che nelle città ucraine) come nel Sudan dilaniato dalla guerra civile indotta da interessi esterni, così come nelle altre decine di “aree di crisi” sparpagliate sul globo si sviluppano combattimenti che provocano ogni giorno vittime, profughi, stragi.

Di spiazzamento, perché di fronte alla complessità dei fenomeni e alla profondità delle ingiustizie, ci si pone legittimamente l’interrogativo su cosa sia davvero la pace, e cosa si debba far per perseguirla, raggiungerla, ottenerla.

Già Mounier, in anni lontani, ci ricordava che “la pace non è solo assenza di guerra armata” e neppure sinonimo di “tranquillità soddisfatta”.

È invece una tensione che scaturisce da una visione del mondo che si oppone ad una morale, ad una metafisica e a una tecnica della tranquillità come quelle alimentate dalla cultura contemporanea, che punta all’adattamento sociale e biologico dell’individuo in modalità massificante. In questa condizione, la felicità viene identificata nel “lasciarsi in pace a vicenda”.

In realtà, sempre per riprendere le parole del padre del personalismo, a questa pace delle anime mediocri e prudenti va contrapposta la vocazione alla pace, la tensione alla pace, l’impegno alla pace che è tutt’altro -riprendendo le sue parole- che “utopia da sedentari”, ma che al contrario è alternativa alla “volontà di potenza” nietzschiana e va nella dimensione di quello che Maritain definiva l “umanesimo eroico”.

La pace, nella sua lezione, può essere figlia di tre culture:

1) la cultura dell’avere, che la concepisce come proprietà (di qualcuno, di un popolo, di un potere);

2) la cultura del divenire, per cui la pace è sempre una conquista;

3) la cultura dell’essere, da cui consegue sovrabbondanza di vita e di forza.

Su questo piano, vi è il rischio che l’uomo si spogli della sua pace, di una pace che egli si è acquistato fra le sue ricchezze, sottoscrivendo un “patto di non aggressione” con il mondo così com’è, optando pertanto per il non-intervento di fronte alle miserie dell’umanità.

Dalla pace fittizia (fatta di compromesso e di distrazione) è facile poi passare alla pace come “alienazione” o “evasione”, immaginando che la dimensione della propria condizione come un mare tranquillo protetto dentro un oceano in tempesta possa essere la dimensione ideale.

In realtà, aveva ragione Mounier quando ci avvertiva che “la nostra condizione temporale anzitutto ci impedisce di agire come se la forza brutale fosse assente la gioco degli uomini, mentre non ne sarà mai totalmente espulsa prima della riconciliazione finale”.

Questo non deve però indurre né al pessimismo né all’astrazione.

Accademia Bonifaciana - Premio Internazionale Bonifacio VIII

E cioè né a considerare la guerra e la violenza come una fatalità ineluttabile per natura alla quale dobbiamo cinicamente arrenderci o con la quale fare i conti come se fosse la prosecuzione della politica con altre forme, né a cadere nell’irenismo di una visione serafica dell’umanità che diventerebbe d’improvviso perfetta al solo desiderio di taluni.

La pace è dunque è impegno, una tensione, un obiettivo.

Che deve fondarsi sulla coniugazione di due elementi essenziali: la giustizia e la carità.

È infatti dall’alleanza tra questi due concetti che scaturisce il raggiungimento di una vera pace, che non sia solo assenza di guerra.

La giustizia costituisce il primo fondamento dell’ordine che è alla base della pace. Essa non va ridotta a una concezione formalista o amministrativa, né può essere ricondotta al solo “equilibrio degli interessi o anche dei diritti”. La pace è opera di autentica giustizia, e l’attuazione di essa sul piano del diritto internazionale.

Del resto, già in uno storico discorso alla Knesset del 20 novembre 1977, il presidente egiziano Sadat nell’ offrire la pace agli Israeliani precisava: “signore e signori, devo dirvi la verità: la pace non è degna del proprio nome finché essa non è basata sulla giustizia”.

Ma come ricordava San Tommaso d’Aquino, se la pace deve essere opera e frutto della giustizia, essa appartiene alla carità più che alla giustizia.

Come ebbe a ricordare Pio XI nell’allocazione del Natale 1930, riprendendo le formule dell’enciclica “Ubi Arcano Dei”, “la pace, la vera pace è cosa piuttosto di carità che di giustizia; perché alla giustizia spetta solo rimuovere gli impedimenti della pace: l’offesa e il danno; ma la pace stessa è atto proprio e specifico di carità”.

Concetti ripresi dalla “Pacem in Terris” del 1963, con papa Roncalli che metteva al centro la questione dei diritti umani (superando il timore tradizionale per la loro derivazione illuministica) e ricordando che per costruire un ordine sociale giusto occorreva mettere come fondamento “il principio che ogni essere umano è persona, cioè una natura dotata d’intelligenza e di volontà libera e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili”.

La pace è dunque un’idea integrale della società, che tiene insieme i diritti fondamentali dell’uomo al cibo, alla casa, all’assistenza sanitaria, alla sicurezza sociale, all’istruzione, alla partecipazione democratica, alla libertà religiosa.

Un concetto che arriverà ad estendersi con Paolo VI e la sua “Gaudium et spes”, nella quale papa Montini ci ricorda che “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Una impostazione senza la quale sarebbero state impensabili le grandi encicliche di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, e non avremmo avuto né la “Laudato sì” né la “Fratelli tutti” di papa Bergoglio.

La pace, dunque, è un’opera di giustizia e di carità.

E per concretizzarla serve anche la volontà di “sacrificare anche molta parte della nostra volontà privata” e “pretendere in tutta serietà di mutare quel che si definisce immutabile” per dirla con le parole di Vaclav Havel.

E questo rimanda alla coscienza di ciascuno e di tutti, e al senso della vocazione personale vera e propria di ciascuno verso l’altro.

Tutto questo va calato nella Storia. Come ricordava spesso uno dei premiati del passato di questa cerimonia (luglio 2021), il compianto David Sassoli, richiamando uno dei grandi maestri del pensiero europeo, “senza la materia il nostro slancio spirituale si smarrirebbe o nel sogno o nell’angoscia”.

La Storia, la materia, la carne sono il necessario complemento dello spirito. Senza di esse, lo spirito si perde nell’ afflizione ci ha insegnato Sassoli. E per dirla con un motto dei padri della Chiesa, tanto caro ai resistenti cristiani, “caro cardo salutis”, la carne è il cardine della salvezza.

E i due fatti storici di base nelle relazioni internazionali da prendere a fondamento sono la realtà concreta di una Patria e l’esistenza di diritto, e progressivamente di fatto, di una comunità internazionale.

E su questo possiamo dirla con Gaston Fessard: “io devo amare anzitutto la mia patria o sono colpevole di mancare alla giustizia e alla carità verso il mio prossimo più prossimo (…), ma devo anche, uscendo dal cerchio della mia patria, amare veramente più di essa l’umanità di tutti; diversamente, la mia giustizia rischia di diventare ingiustizia e mio amore egoismo”.

Concetti, peraltro, richiamati già da Leone XIII nel 1901, in una lettera del 20 agosto nella quale condannava “chi pensa di dover avere il debito della carità solo verso coloro che gli sono uniti dal sangue e dalla razza”.

È da tutto questo che si può quindi tranquillamente concludere che la pace è raggiungibile solo attraverso il personalismo, e il riconoscimento della univocità, specificità e preziosità della Persona.

Valgano per tutte le parole di Immanuel Kant: la persona è “sempre fine, mai puro mezzo”. Così come gli insegnamenti di Soren Kierkegaard o di Antonio Rosmini.

Un personalismo che è linea alternativa al nichilismo, e che dentro le crisi profonde che stiamo attraversando sappia proporre una “proposta di civiltà”.

Non basta, infatti, che davanti alla gravità delle crisi odierne ci si possa limitare alla modifica delle strutture o al moralismo facile, perché entrambi gli approcci non si discostano dal limite profondo del materialismo.

Sono tempi, questi, nei quali per riprendere Mounier, servono “immaginazione e coraggio”, per opporsi alle molteplici forme di spersonalizzazione dell’Uomo, di riduzione della persona a merce, di trasformazione di popoli e di individui in oggetti da sfruttare per cupidigia, sete di potere o logiche di accaparramento.

Perché stanno esattamente dentro queste forme di spersonalizzazione dell’umano i semi e le radici che portano alla fine della Pace.

È quindi la valorizzazione dell’uomo in quanto Persona che porta alla sua “pienezza”, e che può quindi definire l’autentica pace. Perché, riprendendo Sant’Agostino, se la pace è “tranquillitatis ordinis”, l’ordine cui si fa riferimento è anzitutto quello interiore.

Signore e Signori,

Da migliaia di anni, gli uomini leggono nel Libro dei Libri un passaggio che ogni volta suscita un fremito:

“Per ogni cosa c’è una stagione

E il cielo accorda un tempo per ogni scopo;

Un tempo per nascere, e un tempo per morire;

Un tempo per uccidere, e un tempo per guarire;

Un tempo per piangere, e un tempo per ridere;

Un tempo per amare, e un tempo per odiare;

Un tempo di guerra, e un tempo di pace”

È dall’impegno di tante donne e uomini di buona volontà come quelli oggi convenuti qui che nasce la speranza che ci porterà a dire, finalmente un giorno, che il tempo della pace è giunto.

Grazie.